I tragediatori che hanno colpito il Brasile nella sua storia del calcio sono due: Obdulio Varela e Paolo Rossi. I loro inganni hanno scritto i due grandi drammi sportivi del gioco del pallone. Nella Grecia del futbol, il Maracanaço e la Tragedia del Sarriá distano trentadue anni e una grande amarezza che ancora gronda le sue gocce fredde dietro la schiena di molti brasiliani e acceca il loro sguardo alternando la loro peggiore visione ora col volto ligneo e durissimo di Obdulio, adesso con quello semplice e spensierato di Paolorossi. Perché il tempo ha voluto che nome e cognome fondessero in un’unica parola, nell’immediato riconoscimento destinato a tendere una corda a pelo d’acqua sull’Atlantico tra l’Italia e il Brasile.

Obdulio Varela spaccò il Novecento in due parti senza sapere che dentro ci sarebbe finito il dolore di un popolo che in quel periodo avrebbe pagato con suicidi e depressioni la sconfitta in un mondiale creduto vinto fino a pochi minuti prima del triplice fischio finale. Col carnevale già pronto per fare festa e un Uruguay piccolo e indifeso da sacrificare, ma che, invece, “non temeva dio né il demonio”. Obdulio originò Brasile ’50 come nemmeno il cavallo di Troia avrebbe potuto fare, insinuandosi velenosamente nelle crepe della fiera sicurezza della vittoria. Che si sente ancora più vittoria quando non si accorge che sta per sfuggire. E il 1950 avrebbe impartito una lezione al calcio di ogni tempo, con Obdulio finito a bere e a piangere con i brasiliani. Più di tre decenni dopo, nel secolo degli innumerevoli avvenimenti, un mondo diverso avrebbe assistito al secondo capitolo della tragedia fondata sulla sicurezza della vittoria. Ci avrebbe pensato Paolo Rossi, chiamato in causa da Bearzot, contro il parere di tutti, al posto di Roberto Pruzzo, capocannoniere della Serie A. 

Spagna, 1982. Allo stadio Sarriá si gioca Italia-Brasile. Ai carioca basta un pareggio per passare il turno, mentre l’Italia è costretta a vincere per andare avanti in quel mondiale che la vede sotto una cattiva luce. Prima le nere vicende del calcio scommesse, della Guardia di Finanza in campo, delle partite truccate, delle telefonate misteriose e di un processo, anche a quel Paolo Rossi chiamato a giocare al posto del miglior marcatore italiano. 

L’Italia di quegli anni è uno specchio d’acqua dove si riflette il mondo occidentale. I primi anni del decennio destinato a modificare i segni e le percezioni dell’umano stanno ancora vegliando le vittime delle stragi del terrorismo, quelle della violenza mafiosa, di Ustica e di una tale vastità di esperienze delle quali è difficile controllare la memoria e le relative ricostruzioni, tutt’oggi incomplete e inaffidabili. I primi anni ’80 nascono nel segno di Solidarno??, delle lotte sindacali, della Marcia dei Quarantamila, del terremoto in Irpinia, dello scandalo della P2, dell’attentato al papa, della scoperta dell’AIDS, della crisi militare nel golfo della Sirte, la guerra delle Falkland e tanto, troppo per essere sopportato e compreso fino in fondo. Parole chiave come guerra, lavoro, pace, sicurezza subiscono una rielaborazione che le mette in relazione senza più distinguerle, ma contaminandole in un codice ibrido e subdolo.

La nazionale italiana di calcio si presenta a quel mondiale, quello spagnolo del dopo franchismo, facendo una brutta figura nel suo girone, facendo fatica con squadre come Camerun e Perù, e qualificandosi alla fase successiva, secondo alcuni, grazie a qualche favore chiesto agli avversari. La partita Italia-Brasile ricorda quella di oltre trent’anni prima al Maracana. I sudamericani sono favoriti, sono considerati tra le migliori selezioni nazionali mai viste su un campo di calcio. Sócrates, Éder, Zico, Falcão, solo per citarne alcuni, sono fuoriclasse che la nazionale italiana forse non può vantare. Il risultato, secondo molti osservatori e appassionati, è quasi scontato. Invece, come calcio conviene, l’Italia vince 3-2. I tre goal tricolori li segna Paolorossi. 

Smunto, magro, ossuto, tutto nervi, con un aspetto fisico anomalo per un calciatore professionista. Gianni Mura lo definirà “uno di quelli che verrebbero riformati dalla leva”. Tuttavia, proprio quel calciatore portato al mondiale al posto del capocannoniere della Serie A, segna i tre goal che rammentano al Brasile la lezione di qualche decennio prima, di quando il calcio avrebbe sancito la sua crudeltà nell’acquisizione definitiva della sua manifestazione creola. Stavolta, però, a farlo non è la scaltrezza marmorea e muscolare di un uruguagio che rassomiglia a un guerriero, ma l’impresa di un calciatore sfuggito, anch’egli, ai parametri della prevedibilità.

Una duplice pedagogia degli eventi. Da una parte, il calcio che, come molte cose della vita, ammonisce che niente va dato per scontato. Dall’altra, un giovane che con leggerezza si porta addosso il riscatto gioioso di una nazione, vincendo non solo il campionato del mondo, ma pure le diffidenze di chi non avrebbe puntato su di lui, simbolo di quella nazionale che in finale avrebbe trionfato su quei rivali tedeschi, a proposito di reduci e di amarezze da “Secolo breve”. Paolo Rossi è stato soprattutto questo, nel suo simbolo che è e sarà di generazioni che lo hanno visto e di quelle che lo riconosceranno solo in un’immagine.

Come in un film di Sergio Leone, dove il brutto, solo per comodità e mai per cattiva considerazione, si potrebbe assegnarlo a Obdulio, il buono a Paolorossi e il cattivo, stavolta senza dubbio, all’amarezza di doverli salutare confortandosi in quella cosa preziosa che va sotto il nome di memoria. Come cantò Nando Martellini: “Rossi! Rossi! Rossi!”