“Rimango solo... le montagne, le ombre. Il sonno della mia terra accarezza. 
O Dio! O Dio! Quando ci sveglieremo e risorgeremo alla felicità?”
Ilia Chavchavadze, scrittore georgiano


Nessuno lo aveva nemmeno nei pensieri. Quel calciatore così semplice nei modi e nell’aspetto rievoca un calcio che sembrava perduto. Dribbling secco e imprevedibilità. L’uomo superato per davvero. La giocata definitiva, ultima e irrecuperabile. Non quello scatto più lungo che molti hanno pure il coraggio di chiamare dribbling, ma che procede semplicemente per quello sforzo che non varca, non salta l’avversario, ma se lo trascina.

La forza fisica viene dopo, perché c’è prima il genio. L’atletismo al servizio delle idee, non il contrario. Un capovolgimento di quel feroce e avvelenato intendimento del calcio senza più anima, senza spirito. Khvicha Kvaratskhelia è l’anti campione artificiale. È una possibilità per la storia del calcio. Il suo essere anni ’70 è un recupero del passato che è ancora necessario al presente. Ci voleva un georgiano? Può darsi. Ci voleva uno che provenisse da un luogo del mondo che non sia sotto i riflettori, ma che ha tante cose da dire. Soprattutto l’inascoltato fatto di silenzio e di sostanza. Kvara ha liberato il Napoli da vincoli tattici e direzioni obbligate laddove adesso c’è una strada lunga e tutta da percorrere. Ci corrono i suoi compagni e ci corre una squadra dove è in atto una pedagogia totale, come quel calcio desiderato dai tanti tentativi trascorsi e recenti.   

È presto, è presto, ma tanti tifosi del Napoli hanno già paura di perderlo, di vederlo risucchiato dai successi contrattuali prima ancora che da quelli sul campo. Il calcio di oggi è di una legge troppo potente per resistervi. Il grande sogno sarebbe proprio questo. Come pochi sono riusciti a fare, lasciando inascoltate le sirene di Ulisse. Ma è presto, è presto. Eppure, quasi nessuno riesce più a nasconderla, quella preoccupazione. Convivono la gioia e la paura di smarrirla. Si è riaffacciata una forma nuova di felicità accompagnata da quel terrore di innamorarsi. Ci si può abituare a molte cose, ma non all’amarezza della ripetizione del distacco. Quella si scongiura soltanto evitando che si creino certe condizioni. Perché il dopo, se arriva, è assolutamente ingovernabile. 

Non glielo dite. Non ditegli che è semplice e fuori dal comune. Anche se forse lui lo sa. Varrà fino a quando saprà tenerselo per sé. Come il genio posseduto e irrivelabile, costretto a fare i conti con il timore che non si realizzi, che non si riveli così grande come si credeva. Non ditegli che è così bravo. Non parlategli del suo talento. Lui lo sa e lo coltiverà dentro quella semplicità. È difficile, perché è difficile, ma sarebbe prodigioso già se restasse sempre così. Uno che gioca libero, a volte talmente dentro quell’ebbrezza da non accorgersene. Kvara è quello che non chiede di calciare un rigore e che guarda fisso Osimhen, tra l’incredulo e l’immeritevole, che gli dà la palla e gli dice di tirarlo. E lui, già defilato nel disparte, fermo e speranzoso, colpito dal tocca a me e non posso sbagliare. Quel genere di inquietudine che guai a perderla. 

Kvaratskhelia entra in campo senza pensare a niente che non sia la partita e tutto quello che le riguarda per giocarla al meglio, sopportando le botte dei marcatori e correndo ancora più forte. La triangolazione vincente nella gara di Amsterdam dopo un fallaccio subito pochi minuti prima è la risposta della superiorità interiore. E lui gioca così, come per strada e come alla Cruijff Arena. Chi è stato per le strade della Georgia sa che uno come Kvara sente uguale la via secondaria dei quartieri poveri e lo stadio Boris Paichadze a Tbilisi. La sua è la Tavisupleba, come per l’inno del suo paese. La Tavisupleba, che in georgiano vuol dire libertà. Non diteglielo. È presto, è presto. Sarebbe bello se nessuno lo distogliesse da quello che è. Chissà che lui non sappia già pure questo.