Parafrasando un inflazionatissimo ritornello, più che un teorema, iniziamo a precisare una cosa. Non è giusto ciò che piace, ma piace ciò che piace. E, ovviamente, spiace.

Una supercazzola, sì, per specificare che quanto elencato in questo bilancio a mente calda della stagione è tutt'altro che oggettivo. Anzi. Il calcio stesso, d'altro canto, è morfologicamente universale nel suo linguaggio ma assolutamente personale nella sua interpretazione. E questa, ovviamente, è squisitamente mia.

Premessa: ciò che c'è piaciuta, anzitutto, è stata l'ultima giornata. Tutti insieme, appassionatamente, come ai vecchi tempi, a darsi acerrima battaglia, condizionati dai risultati altrui e abbagliati dai ribaltoni che istante per istante hanno reso gli estremi 90' più belli e significativi dell'intero resto della stagione.

Ciò che non c'è piaciuto, di contralto, è il fatto che, ancora una volta, il campionato non si sia giocato, almeno per la definizione della sua piazza principale. E' abbastanza triste che la Serie A conosca già un'estate prima la sua vincitrice, alla stregua dei campionati minori, in cui la competitività è una realtà più tangibile della figura di Mark Caltagirone. Merito della Juventus, certo, e demerito delle altre, ci mancherebbe. Ma per noi, popolo del pallone, composto per buona parte da fantallenatori incalliti, vedere un torneo così autoriferito, negli esiti, è deprimente, anche se paradossalmente stimolante perché sposta l'interesse sul fantacalcio. Magra consolazione.

Ciò che c'è piaciuto è la retrocessione di Chievo e Frosinone. E non perché ci faccia piacere vederle fuori dalla massima serie, anzi, ma semplicemente perché, in una stagione in cui non hanno praticamente mai mostrato né tecnica di base, né tanto meno mordente, è giusto che salutino e ripartano da un nuovo progetto, magari più giovane e innovativo, cosa che in parte hanno già mostrato di avere intenzioni (e possibilità) di fare, nella seconda metà dell'anno. L'opaca sfida a reti bianche di sabato, in tal senso, è stata una placida testimonianza di come, il decadimento di Serie, sia legittimo.

Ciò che non c'è piaciuto è lo scarso appeal del primo Napoli di Ancelotti. Ci si aspettava di più, in assoluto, soprattutto nel percorso nelle Coppe, da un maestro come Carletto: a maggior ragione se si considera che il suo modo di fare calcio è assai più semplice - seppur più efficace, in alcuni ambiti - di quello del suo predecessore, che pure alla prima stagione riuscì a fare 3 punti in più. Il 2019-2020 con tutta probabilità costringerà De Laurentiis a vendere uno, se non addirittura due, pezzi grossi della rosa, costringendolo di fatto a reinvestire nella ristrutturazione di un gruppo che sembra ancora troppo visceralmente ancorato all'idea sarriana di interpretazione di gioco. Serviranno nuovi uomini e nuove risorse, anche tattiche, per produrre qualcosa di diverso, e, potenzialmente, di migliore. Sia dello stesso Sarri che dei suoi risultati. E Ancelotti, in ogni modo, è l'uomo giusto per fare entrambe le cose.

Ciò che c'è piaciuto è che, alla fine, l'Inter - nonostante le impervie di un'annata mai così turbolenta - abbia raggiunto il suo scopo. Spalletti, checché ne dicano i detrattori, non ha fatto brutta figura in Champions, ed ha raggiunto l'obiettivo in A. Nell'ultima partita della sua gestione, considerato che mancano pochi giorni ormai all'arrivo di Conte, ha tirato fuori gli artigli, senza snaturare le sue convinzioni, ed ha avuto ragione. Chi verrà dopo di lui dovrà però sapere che le stesse condizioni al contorno lo hanno messo al muro - e che talvolta anch'egli ha contribuito ad acuire - potrebbero rifare capolino. Servirà, oltre al pugno di ferro, anche un certo ripulisti delle singolarità più spigolose. E, da questo punto di vista, provare a massimizzare le cessioni di Icardi e/o Perisic, potrebbe anche servire per ridare equilibrio e serenità al gruppo.

Ciò che c'è piaciutissimo è che il grande vincitore morale del campionato, per via dei risultati raggiunti in proporzione al materiale umano a disposizione, sia stato Gasperini. Pochi giorni fa chiedevo che venisse 'data una Champions a quest'uomo': non è servito, perché la Dea se l'è preso da sola, e non il quarto, ma il terzo posto. E non poteva essere altrimenti, per la squadra che per almeno 4 mesi in totale ha giocato il miglior calcio dell'intero gruppone delle 20 partecipanti. E che ha - assolutamente non secondario - messo in mostra anche i progressi dei calciatori più imprevedibili. Rivedere ancora un anno il Gasp alla guida, non più ai preliminari di Europa League, ma addirittura ai gironi di Champions, sarà motivo di grande orgoglio per Bergamo tutta, ma anche di stuzzicante curiosità per tutti noi. Se non dovesse essere così, invece, Percassi avrà il suo bel da fare, perché di allenatori di questo livello, lungimiranza, e senso pratico, non ce ne sono tanti. Soprattutto a disposizione dell'Atalanta.

Per gli stessi motivi, non c'è piaciuto che Torino e Sampdoria alla fine siano rimaste entrambe fuori dalle Coppe. Superfluo dire che i posti sono quelli che sono, e che se fosse stato possibile avremmo distribuito degli slot europei a tutte quelle squadre che, al di là del valore della propria rosa, ci hanno - anche solo a tratti - emozionato. Giampaolo e Mazzarri, pur attraverso metodologie completamente agli antipodi, hanno messo in campo sempre e comunque squadre vive, floride, intensamente reattive. Con Belotti e Quagliarella come trascinatori, due realtà così storicamente significative hanno dato sempre un senso alle loro partite, tant'è che per una di loro, il Torino, c'è parso d'obbligo addirittura scomodare, in una certa fase di stagione, addirittura paragoni illustri e commoventi. Non sappiamo se entrambe ripartiranno da queste basi, il prossimo anno, ma sarebbe affascinante se fosse così. 

Ciò che c'è dispiaciuto è che la storia, indimenticabile, del grande ritorno di Sor Claudio Ranieri a Roma sia finita così. Al di là della sua consapevole brevità, quest'avventura che non è stata né matrimoniale, né extra coniugale, ma solo relazionale. Una relazione eterna, viscerale, affettivamente indistruttibile. Eterea ed eterna. Un po' come quella di Daniele De Rossi, uno dei simboli non solo della Capitale ma di quest'era calcistica in senso assoluto ed universale. Vedergli lasciare, così mestamente e rovinosamente, l'Olimpico che era diventato la naturale prosecuzione dei suoi scarpini è un colpo al cuore, alleviato solo dalla speranza di poterlo vedere, anche altrove, dimostrare di potere ancora essere ciò che la sua dirigenza non credeva di poter tornare ad essere. 

Ciò che dispiace è che il Milan, estirpati quelli che, secondo alcuni, erano i suoi veri mali - vedi Mirabelli, Fassone e la proprietà cinese - , non sia ancora riuscito a tornare nel suo naturale habitat sportivo. Pur essendo presente a sé stesso per buona parte dell'anno, e avendo il merito di essersi ricostruito dopo il tradimento di Higuain, il pratico Milan di Gattuso, Leonardo e Maldini non è bastato per raggiungere lo scopo. E dovrà, adesso, nuovamente mettersi alla prova, fare i conti con un'ennesima rivoluzione strutturale che presumibilmente coinvolgerà anche i tre ex giocatori. Spiace, perché anche il prossimo anno l'Europa League verrà vissuta come un fastidio e non come un'occasione, e perché gli strali (anche finanziari) della stagione appena conclusa si ripercuoteranno sulla strategia di mercato estiva, congelando gli investimenti corposi, specialmente sul futuro, che ancora una volta andrebbero fatti. 

Ciò che c'è piaciuto, è che l'Italia sia ritornata prontamente a dare fiducia a Mihajlovic, che dopo l'anonima parentesi milanista, ora meriterebbe eccome un'altra, grande, occasione. Il serbo, oltre che essere il tecnico più cazzuto della Serie A, ora ha anche dimostrato sul campo di sapere dare alle sue squadre una personalità immediatamente riconoscibile, un'anima vocata all'offensiva, una vérve che pochi riescono a instillare. Tutte doti che il Bologna ha saputo imparare, in brevissimo tempo, da Sinisa, tramutandosi nel giro di pochi giorni in una mezza corazzata.  La scelta di puntare su Sansone e Lyanco, la leadership consegnata a Palacio, la rivitalizzazione di Pulgar e Mbaye, il passaggio al 4-2-3-1 che nessuna delle squadra coinvolte nella zona rossa ha avuto il coraggio di impiegare. Tutte medaglie sul petto, gonfio, dell'uomo di Vukovar, che ora è inevitabilmente corteggiatissimo, ma forse farebbe bene a restare, magari per provare a fare del Bologna la nuova Atalanta del nostro campionato. 

Un discorso simile vale anche per il Sassuolo e per De Zerbi, che a sua volta c'è piaciuto e non poco, seppur a tratti. Rivoluzionario, sfrontato, talvolta improvvido ma sempre fermo sulle sue alchimiche convinzioni. Un tecnico ed una squadra così giovani e fresche avrebbero meritato quanto meno la metà sinistra della classifica, ma i riconoscimenti sportivi lasciano spazio, almeno in questa fase, a quelli che sul campo, soprattutto nel girone d'andata, ha legittimato. Paradossalmente s'è visto giocare meglio il Sassuolo della Lazio, che però ha sfruttato al meglio, nel momento cruciale della stagione, i suoi uomini migliori, ed ha portato a casa un trofeo di prestigio in cui peraltro ormai sembra essersi specializzata. Simone Inzaghi, in tal senso, così come altri suoi, già citati, colleghi, sembra pronto al grande salto, sempre se Lotito lo libererà, ma pur avendo raggiunto livelli già importanti di gestione della rosa, deve ancora crescere per quanto riguarda la sua capacità di arrivare al risultato tramite la tessitura di trama in senso stretto. 

Ciò che dispiace è che la Fiorentina vista quest'anno sia stata la peggiore dai tempi della retrocessione, e che debba arrivare il Commisso di turno per provare a cavarla d'impaccio (e non è detto che ci riesca). Ciò che dispiace è che l'affascinante Parma di D'Aversa sia durato solo tre mesi, e che il Cagliari abbia iniziato a tirare fuori gli attributi troppo tardi, altrimenti avrebbe potuto ambire, eccome, a posizioni ben più di prestigio. Ciò che piace è che Tudor abbia rivitalizzato in tempo l'Udinese, che ora potrà continuare a produrre i nuovi De Paul nel prossimo ciclo, mentre ciò che spiace è che alla fine l'Empoli non ce l'abbia fatta a salvarsi. A vantaggio, però, del Genoa che pur giocando molto peggio, e pur dopo avendo smantellato, per l'ennesima volta, la squadra a gennaio, ce l'ha fatta per il rotto della cuffia. E più per la virtù dell'Inter che per la propria.

Peccato davvero, perché le due gestioni Andreazzoli in Serie A ci avevano ridato un Empoli a tratti paragonabile - Sarri a parte - solo a quello di Gigi Cagni. 

Ciò che piace, infine, è che la Spal abbia confermato che le favole non esistono solo nei libri per bambini, ma anche nello sport, per quanto meschino, perfido, e materiale a tratti possa apparire. 

Ma non ne facciamo certo una colpa, a chi la pensa ancora così. 

D'altra parte, anche quest'anno siamo stati costretti a vederne e sentirne di ogni, dentro e fuori dagli stadi. Ciò che non ci piace è che dagli scontri al razzismo, i germi dell'odio e dell'ignoranza siano evidentemente ancora ben radicati nel sottobosco nostro calcio, per quanto si possa provare, con regolamentazioni sempre più stringenti, e tecnologie continuamente in divenire, a estirparli.

Chissà se mai riusciremo a scrivere un editoriale di fine anno in cui non dovremo, ancora una volta, citare questo passaggio. 

Ci speriamo, certo, ma, tutt'altro che disincantati, sappiamo che non è detto che sia così. E il motivo, ahinoi, è sempre lo stesso. Quello che un grande del nostro ambito amava ripetere. 

E ciò che ci dispiace, più d'ogni altra cosa decantata in questo lungo elenco, è che se ne sia andato.

"Nulla è mai davvero a prova di idiota,

 perché gli idioti sono molto ingegnosi"

Vittorio Zucconi