Tra sei giorni l'Inter affronterà il Benevento. A San Siro. 

L'Inter, sì. La squadra che a inizio stagione era stata riconsegnata agli onori delle cronache dopo la rigenerativa cura Spalletti, che aveva individuato un 11 base che, pur senza strabiliare (se non in rarissime occasioni) riusciva sempre a spuntarla. Talmente spesso che fino a ottobre sembrava potesse essere addirittura il terzo incomodo, nella consueta corsa scudetto Napoli-Juventus.

Erano i giorni dei cross a ripetizione di Candreva, che in un modo o nell'altro finivano sempre - telecomandati - sulla testa di Icardi, delle sgroppate di Perisic, degli strappi di Vecino e di uno Skriniar inaspettatamente entrato nella fase Beckenbauer-iana della sua carriera.

Settimane di scalata, che riuscivano a nascondere anche i limiti strutturali di una rosa che evidentemente non poteva reggere con gli stessi undici sino a fine stagione. Perché prima o poi anche i fisici marmorei di gente Perisic e Icardi vanno in fallo, e di calciatori capaci di reggere 38 partite con la medesima intensità ancora non se ne sono visti, in 100 anni di pallone. 

E così, di punto in bianco, la scalata s'è arrestata. Il tridente, per infortuni e cali fisici s'è sgretolato, e Spalletti non è stato in grado di trovare soluzioni alternative. E no, né Eder né Karamoh sono da ritenersi tali. Perché saranno anche riusciti a sostituirsi ai due migliori marcatori della squadra in una brevissima finestra temporale, ma a differenza dei titolari non contribuiscono alla manovra. Uno è un ragazzo evidentemente dotato di corsa, slancio e giocate, ma viene ancora (giustamente) rimproverato dal tecnico perché non capisce come e quando deve scegliere tra il numero personale e il giro palla. L'altro è una seconda punta che per doti tecniche e limiti fisici non potrà mai sostituire il capitano. 

Certo, sono arrivati Lopez e Rafinha, ma mentre il primo è stato immediatamente derubricato a quarto centrale (a Genova Miranda è stato sostituito, e non con enorme successo, dal solito Ranocchia), il brasiliano dopo un mese a Milano ancora, evidentemente, non è pronto. Strano, perché appena è arrivato l'allenatore ha spiegato che si sarebbe dovuto gradualmente riabituare al ritmo partita. E invece, settimana dopo settimana, per lui in campo ci sono stati spezzoni - nell'ordine - per un totale di 1' - 26' - 32' e 28'. Praticamente negli ultimi 20 giorni l'ex Barcellona, che doveva gradualmente accrescere il suo minutaggio fino a diventare il trequartista titolare, ha sempre avuto mezzora nelle gambe. Peccato che in campo dimostri sempre il contrario.

Ha sempre partecipato al gioco in maniera attiva e interattiva, mai compassata, senza risparmiarsi. Ed è immediatamente diventato un idolo anche per la tifoseria, che contestualmente ha definitivamente messo da parte quel pizzico di empatia che c'era nei confronti dell'irrequieto e discontinuo Brozovic.

Non può che ripartire da Rafinha, Luciano Spalletti. Che intanto in conferenza stampa, come sempre, se la prende con i suoi dirigenti e i media, "colpevoli" di attingere informazioni dai suddetti, come se non fosse una dinamica che un uomo di calcio navigato come lui dovrebbe avere ormai digerito. E se la prende anche con tutti quelli che parlano di "rivoluzione", a pochi giorni dalla chiusura della sessione invernale di mercato che non gli ha portato Sturridge, né una mezzala che potesse sostituire lo stesso Brozovic, né, forse, un'ala che avrebbe dovuto dare un ricambio più lineare a Perisic e Candreva. 

Ma la vera rivoluzione a cui si fa riferimento non è quella che la società potrebbe dover fare in estate: quanto, piuttosto, quella che dovrebbe fare lui. Già, perché l'allenatore se la prende con gli altri, ma non ha ancora mai provato nulla di diverso, nonostante gli ultimi 70 giorni siano stati drammatici. Ha sempre insistito sullo stesso modulo, e sugli stessi undici, prima di capire, ad esempio, che Joao Cancelo - che dall'infortunio aveva recuperato a inizio ottobre - era un terzino di corsa e qualità superiori sia a quella di Dalbert, che di Santon e Nagatomo. E invece il portoghese il campo dal 1' 'ha visto solo nel turno natalizio, prima di non uscirne più.

Karamoh da solo può fare la differenza? (getty)

+

Discorso simile varrebbe anche per lo stesso Karamoh. Con tutti i limiti legati all'inesperienza di un ragazzo che deve ancora farsi, a livello calcistico, fino al 5 febbraio per lui erano stati solo una 50ina i minuti in campo. Pochi, pochissimi, se poi ci si rende conto che c'è la necessità di fargli fare due partite da titolare, perché i suoi pari ruolo sono completamente spompati.

E il medesimo principio vale anche per Rafinha. Quando entra la luce si accende sempre, ad ogni pallone toccato, ma il coraggio di esibirlo dal 1' ora è giunto il momento di trovarlo. Verrà poi, al limite, sostituito dopo una manciata di minuti nella ripresa, ma nel frattempo la squadra inizierà ad avere un vero e proprio leader tecnico, capace di unire i reparti come sinora né Borja Valero, né Vecino e Brozovic sono riusciti a fare. E poi è con lui che si può iniziare a pensare ad un vero e proprio cambio di modulo: il figlio di Mazinho in carriera ha praticamente fatto tutti i ruoli, dal centrocampo in su, ma si esprime al meglio da mezzala di inserimento. Servirebbe quindi passare al 4-3-3, cosa sinora mai fatta semplicemente perché in rosa manca un vero e proprio regista. E allora, perché non dare maggiore corposità alla difesa, escludendo l'opaco Candreva per passare al 3-4-2-1 che tanto funzionava alla Roma, e che impiegherebbe Perisic nel ruolo di seconda punta 'alla Salah' che trasformò un esterno d'attacco in uno dei migliori attaccanti d'Europa?

Idee, spunti, buoni propositi ed esperimenti che però deve essere la rivoluzione di Spalletti e non dei media a mettere in cantiere. Anche perché l'alternativa è il ritorno nell'oblio della parte insignificante della classifica. Una possibilità remota, ma ancora assolutamente rimediabile. Ma che, nell'eventualità, renderebbe forzata e immediata quella stessa rivoluzione che innervosisce il tecnico in questi giorni bui.