Pioli, quando ancora Carletto e Stefano giocavano, un giorno raccolse i suoi scarpini brutti, vecchi e rotti, li fece mettere a posto e li utilizzò in alcune sue partite. Segno di stima, di rispetto, di ammirazione per un ragazzo che in campo era un punto di riferimento, e che in panchina, già da tempo, è diventato un semi Dio.

Certo, molto meno reclamizzato di altri. D'altra parte, Carlo da Reggiolo non ha l'appeal fascinoso di Guardiola né la dialettica dirompente di Mourinho, né tanto meno lo sguardo lugubre e conturbante di Klopp o l'innata eleganza di Zidane.

Anzi, Carletto è un uomo qualunque, nel senso buono del termine. Cresciuto in campagna, al fianco di papà Giuseppe, è superstizioso, introverso ma saggio come pochi. Quando mette piede nel cuore del campo - e lo capiscono, subito, tutti, da Cesarone Maldini al Barone - lo fa con la maturità di un 40enne, pur avendo da poco passato i 20. Quando le ginocchia fanno crack soffre come un cane, ma non molla. E da allenatore, qualche anno dopo, mentre dagli spalti gli urlano "maiale" trasforma la rabbia in determinazione.

Da lì in poi sarà tutto un crescendo. Un viaggio meraviglioso in giro per il globo a crescere come professionista e come uomo, a mietere successi ed a farsi ammirare, sempre in entrambe le vesti, dall'intera nobiltà del pallone mondiale.

"Spesso quando diventi allenatore capisci che problemi hai causato quando eri dall'altra parte. Molte volte si dice ai propri figli "lo capirai il giorno che diventerai papà". Ai giocatori si dice, invece, "lo capirai il giorno che diventerai allenatore".“ 

Quando disse di sì a De Laurentiis, in estate, diversi storsero il naso. I tifosi della Juventus, ad esempio, che sentivano concretizzarsi la possibilità del ritorno di uno così, che la Signora non l'ha mai digerita. A maggior ragione dopo quei cori, la cattiveria dei tifosi e l'esonero. Ma anche molti tifosi del Napoli stesso. Sarri, alle pendici del Vesuvio, era diventato il migliore in assoluto dei non vincenti. Ma, soprattutto, aveva indossato la corazza del bello. 

Un rimedio insuperabile, rispetto alle critiche avverse: "Sì, ma noi giochiamo il miglior calcio d'Europa" era prontamente diventato un karma, talvolta stantìo, ma utile in qualsiasi occasione. Anche quella, drammatica, dello Scudetto perso in albergo a Firenze che, per stessa ammissione dei diretti interessati, fu tale ma anche l'inizio della fine per la gestione del tecnico toscano. 

Personalmente, invece, non ho mai avuto dubbi. Lo scrivevo sei mesi fa, e ovviamente faccio molta meno fatica a ribadirlo adesso. Facile, effettivamente, a maggior ragione dopo che il Napoli è meritatamente al secondo posto in campionato, ma che soprattutto è riuscito finalmente a maturare quella necessaria consapevolezza di sé di cui parlo, in questo spazio, da ormai un anno.

Questo ultimo step, più strettamente psicologico che meramente tattico, Sarri non l'aveva mai fatto. Probabilmente anche perchè il mancato impiego dell'intero ventaglio della rosa, con la metodicità e la fluidità gestionale che oggi Ancelotti può solo insegnare (oltre che applicare), aveva congestionato le risorse. Cristallizzandole, a quei soli 12-13 calciatori che invece oggi sono solo la base elettiva di un processo onnicomprensivo e dilatato che porta ogni singolo calciatore del Napoli a essere consapevole protagonista. Era quello che voleva De Laurentiis, d'altra parte, ma sotto-sotto anche quello che volevano i tifosi. Consapevoli che quella rosa, che di questa è stretta parente, ha potenzialità eccellenti. Ed altrettanto eccellenti margini di miglioramento. Chiedetelo a Malcuit, arrivato in estate solo perché Maggio era troppo avanti con gli anni e oggi tra i terzini migliori del campionato. Oppure a Milik, che i legamenti - roba che purtroppo Carlo conosce benissimo - e il rendimento di Mertens avevano relegato ai margini. Oppure allo stesso Dries, che ora segna come prima, pur giocando la metà. Oppure a Insigne che ha imparato a fare la seconda punta nel giro di poche settimane, o a Fabian che s'è ambientato, tempo un affioramento d'autunno. Ma anche a Diawara, Rog, Ounas, Maksimovic, Karnezis e chiunque altro, che con Sarri in panchina sarebbero stati solo buoni per colmare l'album delle figurine e che invece, oggi, dovessero essere impiegati anche martedi, contro Cavani e Neymar, farebbero la loro ottima figura. 

Così come l'ha già fatta questo Napoli, contro due grandissime d'Europa come il Liverpool e lo stesso PSG, pur non avendo una rosa di pari livello. Forte di quella ferrea consapevolezza che ti porta a giocare non solo alla pari, ma anche a concludere le partite senza crollare psicologicamente. Un percorso che può essere portato a compimento solo da parte di chi, psicologicamente, non è mai crollato. Come Carletto Ancelotti.

"Lui trasmette quella sana umanità di stampo emiliano che lo caratterizza. È ironico, saggio, tranquillo. Ha capacità di allenare la squadra, ma in un certo senso anche di allenare il pubblico ad un certo modo di concepire il calcio. La saggezza, la calma, la quiete che trasmette Carlo a volte è così forte che può condizionare la squadra e l'ambiente"

  Riccardo Cucchi 

Come dice il sempre ottimo Cucchi, l'altro quid di Ancelotti sta in questa sua innata capacità di allenare anche il suo pubblico, oltre che la sua squadra. Ma senza scendere a compromessi, restando sé stessi. Facendosi amare per quello che si è. Ovvero, una persona semplice e saggia, forte delle sue idee e capace di trasmetterle con l'innata efficacia della serenità. 

"I fan di Pep Guardiola e di Béla Guttmann – leggendario allenatore ungherese – sostengono che il ciclo naturale di un coach duri tre anni, e la mia esperienza di parabole della leadership, tranne che in un caso, lo conferma"

Carlo Ancelotti

Non so se tutto ciò basterà anche per vincere, ma per farsi ricordare, certo, sì. Il suo percorso sarà relativamente breve, ma in ogni caso indimenticabile. Anche perché nel suo futuro c'è ancora l'amata Roma, da allenare, prima o poi, e la Nazionale, che lo aspetta a braccia aperte ormai da una decina d'anni. Perché Carletto è l'eroe che l'Italia merita, ma non quello di cui ha bisogno adesso. E quindi gli daremo la caccia. Invidiosi, ovviamente, di Napoli che se l'è preso.

Ma non di lui che, con l'irresistibile fascino della semplicità e la dirompente alchimia degli algoritmi tattici, nel frattempo s'è preso Napoli.