Come sul prato verde, Franck Ribéry affronta con animo lieve e l’autorevolezza del campione la prima intervista italiana. Il francese ha rilasciato le seguenti dichiarazioni ai microfoni del Corriere delle Sera, in cui racconta se stesso ciò che lo ha spinto, a trentasei anni, a raccogliere una nuova sfida, quella della Fiorentina. Ecco le sue parole:

Perché la Fiorentina? È stata davvero sua moglie a orientare la scelta?

«Non proprio. Avevo altri contatti, in Inghilterra e anche in Italia. Ma con i dirigenti viola è scoccata la scintilla. Parlando con Pradè e Barone, anche con l’allenatore Montella, ho sentito calore e fiducia nei miei confronti. E allora Wahiba mi ha detto: andremo a Firenze. Ora sono qui e sono felice».

Anche Toni, suo compagno al Bayern Monaco, ha avuto un peso nella scelta...

«Luca è un amico e le sue parole sono servite. Mi ha raccontato la città, spiegato le dinamiche del club e la passione dei tifosi».

Come si vive il passaggio dal super Bayern alla Fiorentina?

«Sono venuto con la stessa determinazione che avevo in Germania. Firenze mi ricorda Marsiglia. La mentalità dei tifosi è la stessa, sono caldi e passionali. La gente qui vive per il calcio e mi spinge a dare l’anima per la squadra. Noi senza di loro siamo niente. La Fiorentina è un grande club con una grande storia ed è come una famiglia».

Ha fatto in fretta a ritrovare la condizione.

«All’inizio ho dovuto lavorare duro, ma già alla terza giornata contro la Juventus mi sentivo meglio. Gioco con il cuore e in campo metto tutto quello che ho».

Non solo Firenze l’ha accolta bene, ma tutto il calcio italiano. I tifosi del Milan a San Siro si sono alzati in piedi per applaudirla.

«È vero e conferma la bontà della scelta che ho fatto. La serie A è un buon campionato, conosciuto nel mondo. Juve e Inter sono fortissime, anche Roma e Lazio mi piacciono e il Napoli è cresciuto nel tempo».

Rispetto a quando ha cominciato, come è cambiato il calcio?

«Le nuove generazioni sono differenti. Noi pensavamo a divertirci e a imparare, non certo ai soldi. Ora la vita è diversa, i ragazzi hanno altri problemi e priorità: le macchine, gli sponsor. Troppe cose per cui rischiano di rovinarsi».

Anche al Bayern era un punto di riferimento.

«Lo eravamo in tre o quattro. Mi piace questo ruolo. Ho conosciuto Alaba che aveva 16 anni, lo portavo a casa mia a pranzo e lo incoraggiavo. Un giorno ha visto la mia Ferrari e il mio orologio al polso. Gli ho risposto di non guardarli e di pensare solo a migliorare e di concentrarsi sul campo. Dopo, e solo dopo, sarebbe arrivato il resto. Alaba ce l’ha fatta e ora mi ringrazia. Qui parlo tanto con Chiesa e Castrovilli, sono ragazzi in gamba e vogliamo crescere tutti insieme».  

È per questo che parla molto con i giovani, almeno in campo.

«Lo faccio anche fuori. Vorrei aiutarli. Mi piace perché mi ascoltano. Vedono come lavoro, come mi alleno, anche come mangio. Ho vinto tutto nella mia carriera e loro prendono esempio da me».

Cosa pensa di potergli trasmettere?

«La mentalità. Io non ci sto mai a perdere, se succede mi arrabbio. Bisogna pensare a vincere, sempre. Non è facile, anzi è impossibile. Ma bisogna provarci. Io lo faccio persino nelle partitelle di allenamento».

È vero che dopo aver perso con il Genoa è venuto di notte a allenarsi al centro sportivo?

«L’ho fatto perché ero arrabbiato e dovevo sfogarmi. Sono rimasto sino alle 4.30: corsa e cyclette ascoltando la musica. Così poi sono andato a letto e ho dormito. Il messaggio per i compagni deve essere chiaro: vincere e ancora vincere. Bisogna arrivare alle partite con lo stato d’animo giusto, sapendo di averle preparate bene».

Come si trova con Montella?

«È bravo e conosce bene il calcio. Quello dell’allenatore è un mestiere duro perché sono sempre sotto pressione e quando non arrivano i risultati vivono male. All’inizio abbiamo perso due partite e non è stato semplice».