A tutte le vittime della violenza nel mondo del calcio. Perché quando sei allo stadio, mette tristezza pensare che qualcuno è morto o è in coma per essere andato con piacere dove vai anche tu

In Italia capita che a tante persone vengano vietate una trasferta o l’acquisto di un biglietto, perché la risoluzione preventiva della violenza dentro e fuori gli stadi viene affidata alle anagrafi e alle residenze. Poi, al tempo stesso, succede che in occasioni anche di grande importanza, come, per esempio, di gare internazionali, finali o altri appuntamenti che prevedono grandi partecipazioni, quello o quelli che vengono immediatamente fatti passare per le frange extra ordinem del tifo segnano per sempre una partita consegnandola alla cronaca nera.

La durezza dello status che regola l’ordine pubblico intorno al calcio porta con sé le “ottusità” necessarie - immediata sarebbe la giustificazione con la ragione della necessità che in qualche modo deve stabilire dei limiti - e la sbrigatività che impone divieti e limitazioni a chi forse non ne avrebbe bisogno, ma che inevitabilmente finisce nell’astrattezza della regola. Invece, strada che pare senza via d’uscita, la storia di questo ordine pubblico ancora oggi porta con sé il dizionario di quelle figure ambigue e poco chiare delle “frange estreme”, dei “tifosi che non sono tifosi”, di “quelli che col calcio non c’entrano niente” et cetera. Ed è vero. In fondo si tratta di una visione che in teoria affronta la realtà prescrivendo con saggezza i tratti distintivi che, sempre in teoria, farebbero bene a tenere lontani certi figuri dal pallone. E sarebbe ingiusto estendere a un’intera tifoseria l’onta del misfatto ad opera di singolarità che non possono, non hanno diritto, non possiedono segni per entrare a farne parte, a dispetto di quello che invece alcuni di queste vogliono imporre. I fatti di Liverpool, accaduti poco prima della semifinale di andata di Champions League tra gli inglesi e la Roma, non devono e non possono fare irruzione nella dignità di una tifoseria. Una tentazione, talvolta espressa altre volte inespressa, che spesso serpeggia ogniqualvolta si verificano certi episodi. Cedere alla marchiatura di un’identità è la prima obbedienza al caos per cui troppo spesso non si riesce a trovare una spiegazione, a cui quasi mai si riesce a dare un nome e da cui si è governati senza saperlo.

C’è però una cosa che la visione ipotetica e teorica della realtà trascura - o finge di trascurare - producendo un effetto che anche col sereno si rivolta contro chi non pratica violenza. Che queste presenze armate di cattivi pensieri e pessime intenzioni, in fondo, fanno parte del calcio e non possono essere predicate ogni volta come aspetti esterni, estranei. Il disconoscimento, in ogni sua forma, della loro presenza rende loro una forma ambigua di immunità. Vietare le trasferte e la vendita dei biglietti, complicare l’accesso alla partecipazione da parte di tifosi e appassionati con la ragione della necessità che altra ragione non conosce se non quella del divieto esteso, sommario e incondizionato, offende pure le vittime delle violenze, pure la memoria di chi certi accadimenti li ha pagati a caro prezzo. Un’anomalia che rintraccia atteggiamenti non sempre comprensibili anche a livello internazionale, senza con questo voler addossare colpe o responsabilità anzitempo, ovviamente.

A Liverpool erano presenti anche agenti italiani, per funzioni di supporto, e, secondo quanto riportato dalla stampa nazionale, pare che le autorità inglesi abbiano ignorato una segnalazione della Digos sull’arrivo in treno di una cinquantina di tifosi della Roma a Liverpool. Massimo Passariello, vicepresidente operativo dell'Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive, in un’intervista rilasciata al Messaggero ha dichiarato che “Agenti della Digos di Roma, che a Liverpool stavano collaborando con la polizia locale, hanno segnalato che stavano arrivando cinquanta tifosi giallorossi da Manchester in treno. Ma in stazione non c'erano agenti ad aspettarli, hanno potuto marciare in città, arrivando a ridosso dello stadio e della tifoseria avversaria”, sottolineando che “c'è una differente concezione della gestione dell'ordine pubblico. In Italia e a Roma, in particolare, tutto viene organizzato facendo prevenzione, evitando che le tifoserie, se si tratta di partite delicate, possano venire a contatto, nel Regno Unito si punta più sulla repressione: alle tifoserie viene concesso di muoversi liberamente, però poi se sbagli ti colpiscono con fermezza.”

Adesso, tenendo comunque in considerazione la complessità di certe situazioni (ogni giudizio, ogni valutazione vanno cautamente sospesi), perché ogni volta che accadono certi episodi si avverte successivamente una sorta di rivelazione di un timore che in precedenza era stato già avanzato (non per forza rivelato)? Perché emergono sempre trascuratezze, preoccupazioni, contraddizioni o interrogativi sistematicamente evasi? La severità, i divieti, le restrizioni necessarie fin dove arrivano? Questa volta l’episodio violento è accaduto all’estero, sì, ma questa contraddizione si è verificata e si verifica anche a livello nazionale. Rispetto agli accadimenti di Liverpool, vale la pena ricordare che nessuno si è ancora espresso con certezza sui presunti responsabili e sulle loro condotte e quindi niente ancora può in qualche modo diventare tessuto di considerazioni più nitide.

Quello che però emerge ogni volta è questa presenza di una potenzialità della violenza che sfugge a ogni soluzione, o presunta tale, a ogni somministrazione della legge e delle sue più severe decisioni. Un rapporto subdolo tra la regola e la sua applicazione, tra i suoi autori e i destinatari. Come se il calcio dovesse inevitabilmente sopportare, conteggiare, assorbire e far propria questa possibilità di incursioni della violenza, suscitando sensazioni per cui la pratica dello scontro inizi da più lontano. Allora, per un ulteriore paradosso, perdura lo scotto per la parte maggioritaria che non rientra nelle colpe di certe misure che a volte si rivelano pure insufficienti. Un “governo”, un’arroganza di minoranza sopra un’impotenza che appare tale, ma che non sempre fornisce spiegazioni convincenti, adotta contromisure che superino l’efficacia della generalità. E che duri poco, corra rapida e indolore attraverso il protocollo mediatico, così da essere come la colpa mostruosa che Elias Canetti definisce nel suo Regno di matite