Una delle cose che spesso vengono dette quando viene ricordato qualcuno è cosa direbbe di questo e di quello se adesso fosse ancora vivo. Come commenterebbe, cosa penserebbe. Un desiderio del senno di poi e del postumo, quasi sempre con quella sottile pretesa di farsi avvalorare in assenza, pensando che quel personaggio sia una garanzia, una consacrazione della propria ragione. In fondo, una forma elegante di stupidità. Nulla di più.

Quando un’intelligenza se ne va, lascia la sua traccia e gli strumenti per leggerla, farle visita, andando in qualche modo a trovarla. Nient’altro. E, di certo, non è poco. Ogni persona che è in grado di lasciare quel segno, lo fa nello spazio e nel tempo che le viene assegnato. Il dopo ospita il ricordo, la sua memoria, il patrimonio che è stato in grado di consegnare. In certi casi, la leggenda. Tuttavia, non lascia un libretto d’istruzioni, non nasconde chissà quali prontuari di quello che direi se fossi ancora tra voi. In fondo, contempliamo quello che viviamo, figuriamoci quello che non possiamo vedere più.

Magari più in là, qualcuno si sognerà di dire cosa direbbe Gianni Mura davanti a questo e quello? Cosa scriverebbe? E chissà, pure avanzando il proprio suggerimento. Quando una volta ho avuto modo di parlarci, ebbi l’impressione di una persona dentro il senso del tempo. Non il tempo dell’epoca, non quello per gli storiografi. Nulla di tutto questo tocca chi è dentro il tempo perché comprende di non farsi travolgere dalle sue ansie, dalle sue bislacche normative. Semplicemente, una forma filosofica antica. Quella che riconosce la sostanza delle cose che lo circondano e, con saggezza, le fa proprie rispettando la proprie inclinazioni, i gusti, le idee. La vita. Un’assegnazione senza necessità di essere confortato da qualcun altro. E qui, scorgendovi e godendosi il dolce e l’amaro delle passioni, dei doveri, delle contraddizioni.

Gianni Mura amava le cose che vedono l’uomo in costante movimento. Prediligeva i fenomeni di massa che si vivono insieme senza toccare gli spazi intimi e i sacri disparte. Il calcio, il ciclismo, fino alla cucina. Sapeva bene che alcuni degli sport che seguiva con passione sono discipline talvolta “ammalate”, contaminate da quelle contraddizioni dell’uomo che lui non giudicava, o, almeno, non lo dava a vedere. Era affezionato a certi argomenti pur sapendoli preda di situazioni che danno dispiacere a chi le vorrebbe fuori da certe logiche, da certi coinvolgimenti.

La sua scrittura – inutile e superfluo soffermarsi su quanto fosse declinata secondo i canoni della raffinatezza in un mondo destinato a paventarsi sempre meno raffinato – velava la sua voce, il suo tono distaccato, essenziale, perennemente immalinconito, a tratti sardonico, con la posa plastica interiore di chi vuol fare capire agli altri che il senso pedagogico delle cose non va smarrito, mai, pure quando si ha la cattiva sensazione di non avere più nulla da imparare.

Gianni Mura amava il giornalismo secondo il rispetto e l’ossequio verso chi lo praticava con la stessa perizia e abnegazione, confessandolo in una fase in cui lo sentiva cambiato, stravolto, condotto a una specie di patibolo da questo redazionalismo totalizzante fatto di notizie recapitate a domicilio. Apprezzava, oltre che Brera e Viola, giornalisti come Zanetti e Palumbo, maestri storici di un’epoca, quella sì, in cui gli ingredienti di cui sopra erano prescritti, comandati, invece che alla stregua di un ricettario a discrezione.

Proviamo, per un momento, a pensare cosa direbbe ognuno di noi se potesse farlo liberamente. Questo sì che varrebbe la pena di chiederselo. E questo, secondo me, era Gianni Mura.