Maggio, Hamsik, Albiol. Tutti e tre se ne sono andati con qualche stranezza aggiunta alla malinconia. Maggio, salutato da un San Paolo osannante ma ancora emotivamente ancora scottato dalle delusioni dello scudetto sfiorato durante l’ultimo anno di Sarri, nella gara finale col Crotone non ebbe nemmeno un minuto di gioco. Eppure, chissà, l’allora allenatore del Napoli avrebbe potuto concederglielo. Hamsik, la bandiera, il capitano, il recordman, l’uomo immagine del nuovo Napoli, quello post fallimentare, ha smesso la maglia azzurra a gennaio, senza nemmeno il degno saluto che avrebbe meritato. Andato via così, quasi in silenzio, quasi come se ci fosse stato qualcosa di male nel doversi rendere conto che la sua esperienza in azzurro, prima o poi, avrebbe dovuto conoscere la conclusione. Albiol, il professionista esemplare, il difensore esemplare, l’intelligenza esemplare, tornato in Spagna non senza qualche messaggio seccato da parte di De Laurentiis, e, anche lui, senza il giusto tributo da parte del suo pubblico.

Le ragioni, non poche, del Napoli targato De Laurentiis confliggono con la freddezza e il calcolo dell’aziendalismo da sempre imposto dalla filosofia del patron del nuovo corso. Fino alle dichiarazioni, giuste nei contenuti (altrettanto efficaci nella forma?) sull’attuale capitano, quel Lorenzo Insigne da troppo tempo immerso nel suo ibrido di attaccamento e indolenza. Percepiti da tutto l’ambiente. Pubblico compreso. Soprattutto il pubblico. Quella tifoseria che da molto tempo si è divisa sul suo affetto, talvolta retto dalla sopportazione, o, in altri casi, dalla speranza e dalla fiducia.

Eppure, dove inizia quel cuore che Ancelotti ha definito per spiegare le ragioni dell’uscita severa e senza mezzi termini di De Laurentiis su Insigne? Per carità, è difficile riuscire a trovare il giusto equilibrio tra l’affetto e la punizione dentro la struttura del rimprovero. E Ancelotti di queste cose se ne intende, visto che ne ha sempre fatto uno strumento privilegiato dentro il suo metodo di gestione dello spogliatoio.

Se il mister azzurro ha voluto, giustamente, cifrare con saggezza la querelle sulla quale i media, soprattutto quelli napoletani, hanno ricamato fin troppo, da dove inizia veramente il battito di quel cuore del presidente di questo Napoli che vuole mettere ordine tra il bilancio, le risorse, le possibilità e il senso di appartenenza di certi calciatori? Se Mertens e Callejon devono vedersi ridimensionati nel dissidio riguardante il rinnovo di contratto, quale cuore governerebbe quello che invece pare volersi governare solo ed esclusivamente a suon di ragione? Ed è giusto, perché diversamente questa società non potrebbe fare, vista la sua necessità di reggere a certi livelli pur contando su risorse inferiori rispetto ai club rivali. 

Eppure, c’è un’altra cosa che in certi frangenti può soccorrere la precarietà di momenti nei quali non è semplice coniugare l’emotività e la ragione, i simboli e il bilancio, a volte senza bagnarsi nemmeno del ridicolo di una certa retorica, perché nel calcio spesso subentrano necessità che trasformano in retorica molte cose. Forse quella che manca è l’opportunità, è la capacità di dirigere questi momenti senza dirottarli, senza costringerli in qualche modo a venire fuori forzatamente nei frangenti sbagliati. La gestione delle cose senza turbamenti, senza porgere il fianco alla stampa in malafede, senza tirare in ballo quei commentari che non aspettano altro. Soprattutto, senza violare quell’armonia che a Napoli, ormai da un bel po’, quando c’è, sopperisce alla mancanza di cinismo sportivo che è l’unica reale, vera debolezza di questa squadra. 

Se la società, con De Laurentiis in testa, ha diritto di far valere le ragioni della ragione, per evitare che questa evidenzi in maniera scorbutica il suo agire privilegiato, forse, sarebbe meno rumorosa se fosse accompagnata dalla capacità di comprendere e di prevedere certi momenti. Affinché il potere razionale di certe priorità non turbi quello del cuore. Senza retorica, ovviamente.