Non è il calcio ribelle, alternativo al potere, accanto alle sensibilità e dentro i momenti. Anzi, reazionario e conservatore. Il calcio è stato migliore in tempi peggiori. Quello di questa pandemia non ha sortito effetto. Si è assentato. Quando si è presentato lo ha fatto brontolandosi addosso. Non ha suscitato nostalgia. Ha perduto definitivamente la sua aura mitica. L’epica del pallone si è sgonfiata sotto i colpi di polemiche a distanza (senza voler fare battute scontate), di privilegi sottobanco, di fughe e altre storie d antipatie.

Al di là dei gesti personali e delle storie private – quelle nascono ed emergono da sole – il calcio ha dato di sé un’immagine viziata e corporativista. Una corporazione, sì, con la spocchia e l’arroganza di un’economia isolata e inviolabile. Un’autarchia con l’ordine della disintegrazione. Molte, troppe le voci dal suo interno che hanno contribuito più alla confusione che al conforto. 

Una patetica quanto infantile rincorsa a una ripresa sopra ogni cosa. Questa è stata la percezione. Quella di qualcosa che ha voluto professarsi immune e incontaminabile. Tutta la tracotanza di una mistica delirante e strafottente. Non più il calcio religioso. Nulla a che vedere con il suo volto passionale e popolare. Ormai, solo un prodotto di consumo in attesa di essere rimesso sul mercato.

Si avrà la nostalgia dello stadio, della folla, della partecipazione incondizionata (almeno per chi la conserva), del rituale dentro le pratiche quotidiane, del condizionamento incantato e votato ai suoi generi di appartenenza, ma non si sentirà la nostalgia di tutto il resto.

Un calcio in diffida sin dallo scoppio dell’epidemia. Una spinta all’inverosimile fino ai confini della sopportazione. Lo spettacolo in scena fin sull’orlo della crisi, con partite giocate dove non si sarebbero dovute giocare e tra chi non sarebbe dovuto venire a contatto. Il pallone come ultimo strumento di autodistrazione per i più illusori e ciechi dei distoglimenti. Il teniamolo lì il più a lungo possibile ha funzionato da presenza insopportabile prima ancora che molti paesi sospendessero la vita cosiddetta normale. E dopo, anche a porte e a campi chiusi, tra il lavorio ambiguo dei media e i contrasti tra le federazioni, altro non è arrivato se non un caos scandito dal libero arbitrio privato e dalla scelte, ovviamente diverse, delle singole società. 

Anche il calcio ha confessato l’irriducibile adesione alla cultura dell’individualismo più sfrenato, senza visioni solidaristiche e, una volta tanto, libere dalle tensioni dei bilanci. Del resto, a pagare, come al solito, è e sarà l’indotto precario a cui vengono lasciate le briciole. Ecco che, invece che interrogarsi soltanto su quando e come riprendere, questo calcio meglio farebbe a recuperare la sua simpatia, semmai ne possegga ancora.