Ho guardato il sipario calare sul calcio italiano. Forse per un mese, si spera. Perché vorrebbe dire che a inizio aprile torneremo tutti a quell'agognata normalità, allontanata da comportamenti poco responsabili, preludio delle misure governative dure prese lunedì, il giorno in cui andava in scena l'ultimo atto del calcio in Italia, a Verona, con il Carrozzone del calcio che ha provato ad andare avanti anche a porte chiuse, ma non è bastato, e si è rivelato un gesto vano di non arrendersi di fronte alla realtà. Il Coronavirus va affrontato con serietà e fermezza: basta passi falsi.

Situazione all'esterno della Dacia Arena prima di Udinese-Fiorentina (Getty)

E vi racconto questo ultimo lungo fine settimana, consumato in due atti nel Triveneto dove lavoro. Da Udine a Verona, da Udinese-Fiorentina a ChievoVerona-Cosenza, dalla tribuna stampa al bordocampo. Due giorni in cui purtroppo, anche da appassionato incallito quale sei, capisci che purtroppo è il momento di fermarsi, che la situazione non è più controllabile e va messo quanto meno un punto, in attesa di sviluppi. E, ben inteso, non per quel paradigma mai confermato che non esiste il calcio senza tifosi; sì, perché il calcio senza tifosi è strano, a tratti vuoto, è qualcosa a cui non si è abituati, ma in campo le squadre ci danno dentro. Udinese, Fiorentina, Chievo, Cosenza, per 90 minuti giocano, creano, se le danno, come se nulla fosse, perché essere professionisti è anche questo: è riuscire a dare il proprio massimo in campo in quei 90 minuti e rotti a fronte di qualsiasi condizione. Ti capita di sentire parolacce, indicazioni, urla, il tonfo del pallone, questo non accade spesso, ma la partita è vera, perché la posta in palio è sempre quella. Capisci che il calcio deve rientrare ai box, rallentare e aspettare tempi migliori, come molte altre industrie del paese, da tutto quello che vedi e senti, prima e dopo.

Operatori della Croce Rossa fuori lo stadio (Getty)
Con l'accredito garantito per entrare alla Dacia Arena domenica, arriva la chiamata da Dazn per coprire il bordocampo di Verona. L'inviato da Milano non può più muoversi e, prima del nuovo DPCM, Udine e Verona sono due delle rare province del Nord a non essere "zona rossa". Rispondo ok, felice, speranzoso che in qualche modo non sarà l'ultimo fine settimana di lavoro e passione per molto tempo. Non sarà così, ma la speranza dell'appassionato e del fantallenatore è ancora più dura a morire di quella degli altri. Eppure, ogni singolo momento, ogni singolo particolare osservato è un pugno allo stomaco che ti fa capire la realtà. Di "normale" c'è rimasto ben poco, a cominciare dal teatrino del Tardini con i giocatori che entrano ed escono dagli spogliatoi in attesa di risposte. E' la prima crepa nel muro.
I calciatori di Parma e Spal rientrano in spogliatoio dopo il provvisorio rinvio della partita (Getty)
Udine, domenica, ore 17.30, non ero mai arrivato così tardi allo stadio, ma tanto non ci sono auto, parcheggi ovunque. Solita camminata sotto l'ultima sfera di sole della giornata ed eccola lì, l'entrata, con colleghi a distanza di sicurezza e una giornalista tv munita di spruzzatore per disinfettare il microfono a ogni intervista. Arrivo alla soglia e il personale della Croce Rossa, sempre pronto, che ti punta il termometro alla tempia come fosse una pistola ti dà il senso esatto della gravità della situazione. Secondi "febbrili" di attesa: 36.4, si entra, non prima di aver firmato un modulo di assunzione di responsabilità. L'ascensore usato uno per volta, anche in uno stadio semi-deserto, è un ostacolo non da poco. Arrivo in tribuna stampa e si parla più di coronavirus che di calcio, qualche collega ha la mascherina, altri alternano una battuta sulla tastiera a una passata di gel disinfettante sulle mani. Si gioca, la partita scivola via, ma nasce e cresce la consapevolezza che andare avanti così non è possibile, e lo si capisce anche dalle interviste post partita, per un quarto incentrate sulla gara e per il resto sul tema del momento.
Temperatura corporea misurata a Udine (Getty)
Verona, lunedì, ore 18.30, arrivo in anticipo al Bentegodi. Partenza intelligente, Udine non è proprio dietro l'angolo, e anche qui il quartiere dello stadio è praticamente vuoto. L'ingresso è uguale: termometro, attesa, 36 (meglio di ieri), si entra anche qui. Caffè al distributore, dove tre operatori delle tv parlano di coronavirus e di come influisce sulla vita quotidiana. Quelle poche persone allo stadio, steward, fotografi, dirigenti, parlano solo di quello. Per il calcio c'è poco spazio, e il massimo che si riesce a fare è sdrammatizzare, come alcuni giocatori del Cosenza che entrando, un po' alla Ronaldo, salutano il pubblico che non c'è, o come gli stessi fotografi che fanno a gara a chi aveva la temperatura corporea più bassa all'ingresso, o come il Team Manager del Chievo che responsabilmente saluta senza stretta di mano, sempre con il sorriso contagioso, quello sì un contagio utile e non dannoso. Ci sono due microfoni, uno per tempo, e devi sfruttare tutto il tuo braccio e le angolazioni possibili per stare a "distanza di sicurezza". Il coronavirus è ovunque, non materialmente, ma nei pensieri. Ne parlano i calciatori, gli arbitri: è concreta l'impressione che sia l'ultima partita, che in campo viene giocata con buon ritmo. L'atmosfera è più strana dello strano. Sulla mia chat, di fantacalcio, ovviamente, un amico scrive: "c'è un'edizione speciale del tg". Qualcosa non va, lo capisco dal Delegato di Lega che, come mai accade, si distrae dalla partita per aprire Facebook e ascoltare il messaggio del Premier Conte alla nazione. 
Dacia Arena vuota prima di Udinese-Fiorentina (getty)

L'Italia diventa tutta zona protetta, è il momento. Il calcio si ferma, subito, non ci sarà bisogno del Consiglio Federale. Cadono le ultime speranze, e il triplice fischio dell'arbitro al Bentegodi sarà l'ultimo in Italia per un bel po'. Se fosse un mese solo, sarebbe bellissimo, ma non averne la certezza è purtroppo comprensibile. Si vive alla giornata, si naviga a vista, le abbiamo sentite tutte. L'intervista a fine partita a Riccardo Meggiorini ha un sapore diverso. Il Chievo ha vinto 2-0 ma c'è poco spazio per i sorrisi. "Noi avremo giocato ancora a porte chiuse, perché in una partita mi incrocio con meno persone di quelle che potrei vedere durante una giornata normale, ma è giusto fermarsi". Pensiero condiviso. Ripasso la linea a Edoardo Testoni, il telecronista, che saluta il pubblico. Cala il sipario sul calcio del territorio nazionale. Lascio il Bentegodi con la sensazione amara di aver assistito a una partita a suo modo "storica", e la voglia matta di tornare a raccontare una partita, a dare voti (giusti o sbagliati che siano, con annesse polemiche) e a tornare a far fatica a sentire le parole dei protagonisti in campo, coperte dal magico brusio dei tifosi. E lo sguardo ora è concentrato su quella simbolica corda, che se tirata al momento giusto tornerà a fare alzare il sipario. Perché ne abbiamo bisogno, perché vorrà dire che abbiamo vinto e che non potrò mai dire: "ho vissuto dal vivo l'ultima partita dell'anno".