Gli entusiasmi non hanno paura nemmeno dei fallimenti. Anzi, per gli entusiasmi i fallimenti non esistono. Sarebbe un azzardo così assurdo pensare che col terreno di gioco i problemi di questo Napoli non hanno quasi nulla a che vedere? Le analisi tattiche, le ipotesi sulla condizione atletica, il mercato e gli equilibri tecnici arrivano dopo, in ritardo di un bel po’ di tempo dietro la sensazione che si percepisce come la più difficile da dimostrare, ma la più forte e convincente. Come tutte le probabilità inquiete, le più prossime alla verità a volte sono le più nascoste dalla prova.

Come è possibile che la squadra che durante il periodo della dittatura juventina è stata quella che ha fatto più punti di tutte le altre, tenendo testa a più riprese all’organico di un club di gran lunga più ricco e organizzato, sia diventato qualcosa che quando va in campo premette il peggio ancora prima di cominciare? Come è possibile che alcuni di quei calciatori che per anni hanno fatto registrare numeri di primissimo livello adesso non riescono nemmeno più a centrare lo specchio della porta?

Soprattutto, c’era una cosa che il Napoli aveva più delle altre, anche più della Juventus. La maniera di stare in campo. Per anni il Napoli è stato in grado di trascorrere intere stagioni nelle metà campo avversarie, al di là del valore e del blasone delle squadre affrontate. Una visione durata anche fino a un certo punto con Ancelotti – peccano di cattiva memoria o di malafede quelli che sostengono che con il tecnico emiliano non si sia vista un’alta qualità di gioco – in raffinatezza di quel percorso avviato dalla compattezza di Mazzarri, la rimodulazione e costruzione di Benitez e il pregevole perfezionamento di Sarri

Fino a qualche tempo fa, come una costante, che il Napoli perdesse o vincesse questo aspetto non veniva scalfito. Il Napoli si muoveva come un orologio. Con tutti i suoi limiti, le sue contraddizioni e la sua fallibilità, ma con un linguaggio preciso, chiaro, rigoroso e inappuntabile. Il Napoli, a differenza di molte contendenti, aveva fatto del linguaggio di gioco la sua arma migliore. Un’armonia di distribuzione sul terreno di gioco quasi perfetta. E nel calcio, si sa, saper stare in campo significa avere ottime possibilità di fare risultato.

Adesso il Napoli è l’esatto contrario di tutto questo. Ha completamente perduto il suo linguaggio. Non ne ha nessuno, nemmeno di quelli più elementari. Una squadra disordinata, caotica e senza bussola. Alcuni calciatori appaiono svogliati e altri sembrano avere paura di portare palla. In certi frangenti si ha la sensazione che ognuno di loro non veda l’ora di liberarsene, nel timore di non sapere nemmeno cosa farsene. Ovviamente, Gattuso c’entra poco. Probabilmente, non è nemmeno il tipo di allenatore adatto a questo organico.

I dolori di questo Napoli sono l’effetto amaro e irreversibile di una gestione societaria che nel tempo ha riempito fino all’orlo una pentola a pressione. La rinuncia di questi calciatori è diventata poco a poco mentale. Probabilmente non in malafede, probabilmente inconsapevole, ma irrimediabilmente distruttiva e senza soluzione. Il Napoli scende in campo con Mario Rui e Hysaj, due calciatori messi sul mercato questa estate, con la valigia pronta e pure qualche malumore. Il Napoli con l’Inter ha schierato Di Lorenzo centrale difensivo con Luperto e Tonelli disponibili. Almeno sulla carta, soprattutto considerando che nessuno ha ancora capito cosa ci faccia Tonelli in organico. Praticamente, come se non ci fosse. Questo Napoli fa del mistero su calciatori come Ghoulam, dapprima sponsorizzato durante il ritiro come il redivivo pronto a fare grandi cose, poi utilizzato per qualche partita (con scarsi risultati) e poi scomparso completamente. La faccenda delle condizioni fisiche ormai è una barzelletta alla quale si può pure piantarla di crederci.

Il calciatore più pagato della storia del Napoli, Lozano, da quando è arrivato Gattuso non pare essere preso in grande considerazione, se non per dieci minuti con l’Inter, a gara praticamente chiusa. E si potrebbe continuare, per una gestione societaria che da mesi oscilla tra uscite maldestre, silenzi e timorose cautele. E qualcuno vuole convincere i tifosi e gli osservatori che tutto questo dipenda da fattori tecnici punto e basta? Questo Napoli da mesi prende sempre gli stessi goal. Regala palloni comodissimi agli avversari con una disinvoltura imbarazzante, perdendo le partite da solo. 

Scivoloni, svarioni, errori grossolani e altri orrori si alternano in mezzo a un atteggiamento incapace di porvi rimedio persino con il più scontato ed elementare dei falli tattici. Quanti goal sarebbero stati evitati con una strattonata o un cartellino giallo. E, invece, niente. I calciatori avversari corrono verso la porta del Napoli liberi di percorrere sessanta settanta metri da indisturbati, con quelli partenopei a rincorrere e a perdere terreno con un’aura di arrendevolezza e di disperazione. Una squadra che negli anni si era costruita la fama di essere brava a cercare e a trovare qualità ora pecca nei fondamentali. 

Questo Napoli è triste e mette tristezza. Inutile girarci intorno. Come è inutile girare intorno al fatto che una simile condizione, così imbarazzante e desolante, al limite persino della credibilità, non può essere considerata figlia di problemi tecnici. Sarebbe un insulto all’intelligenza. Di fatto, il Napoli non esiste più. Quello che va in campo in campionato, fino alla permanenza di Ancelotti in un paradossale (e i dubbi aumentano) contraltare di una Champions disputata alla grande, è una specie di fantasma in pena di sé. 

Questo Napoli vaga in serie A come da condannato. Lo dicono i risultati, lo dicono gli atteggiamenti, il suo non gioco e il silenzio del San Paolo. Soprattutto, lo dice il volto di una società-padrone che dovrebbe prendere in considerazione l’ipotesi che il suo ciclo sia al tramonto. Prima che i suoi meriti perdano di valore più velocemente di quanto stia già accadendo. Chissà che il grande segnale di fondo sia proprio questo.