Alle vittime della strage di Hillsborough, avvenuta il 15 aprile 1989

L’Olimpico all’imbrunire, in quei frammenti che durano poco nelle inquadrature degli stadi durante gli ultimi scampoli delle coppe europee. Semifinali e finali spesso si colorano così. Di quei tramonti che prenderanno il nero della notte. A chi la gioia, a chi la delusione. Così fu il 30 maggio del 1984, nella Roma mezza evacuata dalla prima finale di Coppa dei Campioni della sponda giallorossa, per la scoperta di un nuovo sapore dell’attesa. La sete dei calciatori dopo 120 minuti di gioco, la fatica di chi poco prima dei calci di rigore altro non guardava se non le panchine, per un sorso d’acqua e per l’ultima decisione. A chi la massima punizione, a chi la sofferenza di guardarla.

Il Liverpool, già tre volte campione d’Europa, era arrivato a quella partita dopo aver eliminato, come spesso accadeva alle grandi d’Europa, destinate alla vita facile nei primi turni, l’Odense ai sedicesimi, l’Athletic Bilbao a un ottavo di finale ben più combattuto (0-0, 1-0) e un doppio trionfo prima ai danni del Benfica e poi della Steaua Bucarest. Avversari di calibro, di certo più impegnativi rispetto a quelli che aveva eliminato la Roma (storica la rimonta a danno del Dundee United), come qualcuno aveva malignato davanti ai sentieri compiuti che avevano condotto in finale le due rosse più desiderose di giocarsela, quella partita incredibile già prima di essere disputata. A chi l’abitudine storica ad affrontarla, a chi la prima volta.

Adesso che il sorteggio delle semifinali dell’edizione di Champions League 2017\2018 ha messo davanti proprio queste due, una competizione molto diversa restituisce alla Roma la possibilità di abbattere un tabù, un mostro ingombrante che da più di trent’anni dimora nei peggiori incubi dei tifosi giallorossi, nei rimpianti di molti ex calciatori della Lupa. Da Bruno Conti a Falcao, da Tancredi a Graziani, passando per il ricordo doloroso di Agostino Di Bartolomei. Roma-Liverpool è un nome, un titolo emotivo, un memento, un segno indelebile dentro la storia di un club, di una parte di una città e di migliaia e migliaia di tifosi. Il tratto culturale che varca i confini sportivi di questo confronto passa pure per un immaginario precedente e postumo, marchiato da canzoni, dagli usi che ne se ne sono fatti, dagli inni che ne sono nati. Il codice-costume di una cromatica dei sentimenti che affronta il divieto alle profanazioni con tutto il suo fearless, per dirla all’inglese, alla maniera dei Pink Floyd, a proposito di Liverpool.

Se la Roma degli ultimi trent’anni è stata cantata da Venditti, nelle celebri Grazie Roma e Roma Roma Roma, oppure nel brano dedicato proprio a Di Bartolomei (Tradimento e perdono), il tocco tipicamente britannico di You’ll never walke alone, il singolo di Gerry and the Pacemakers che da decenni incanta il mondo del tifo anche per adozione di altre tifoserie, s’intreccia con l’Hey Jude dei Beatles, la band di Liverpool più dirompente nella comunicazione rock, che spesso viene cantato dai tifosi dei Reds, pure fuori dalla Kop, per le strade, in trasferta, in quella necessità prima e irrinunciabile che i tifosi del Liverpool devono manifestare ogni volta che ne hanno l’occasione. Due tifoserie, quella romanista e quella inglese, che hanno un rapporto molto intenso col senso di appartenenza e di identità cittadina. Il This Is Anfield non è soltanto un motto o un avviso, ma una promessa, fatta e richiesta a chi indossa la maglia del Liverpool. E a Roma molti vivono il calcio come la scelta di una persecuzione quotidiana in forma della più classica delle ossessioni. Guai a parlare di intrattenimento o di distrazione.

Intanto, destino e sorteggio hanno voluto che Roma e Liverpool s’incontrino nuovamente per un appuntamento che ricorda molto da vicino quello del 30 maggio 1984. I precedenti degli ultimi anni (riassunti in questo video) non sono dalla parte della Roma, come a conferma di un avversario che i giallorossi stentano a “digerire”.

Adesso Roma e Liverpool giocano un calcio differente rispetto a quello delle due squadre che si affrontarono in quella finale. In fondo, il calcio stesso da allora è molto cambiato. Il Liverpool del 1984 era una grande “seleçao” del Regno Unito. E non solo. Scozzesi, inglesi, un gallese, irlandesi e un calciatore dello Zimbabwe, il portiere, il celebre Bruce Grobbelaar, giovane giocatore di cricket. Da ragazzo non dovette di certo immaginare che un giorno avrebbe danzato tra i pali di una delle porte dello stadio Olimpico di Roma per innervosire i rigoristi avversari durante una finale di Coppa dei Campioni. I reds di quegli anni giocavano un calcio atletico, aggressivo e molto pragmatico. Un 4-4-2 in forma di zona mista alimentava la freddezza e il cinismo di Rush e Dalglish, le due punte allora corteggiate da molte squadre europee. Rush, infatti, finì alla Juventus.

Oggi, mentre Klopp ha conservato e rielaborato il senso grintoso del calcio della scuola Liverpool, l’allenatore tedesco ha educato la sua squadra al suo gegenpressing (volendo restituire un qualche genere di traduzione al concetto varrebbe a dire una “riaggressione”, il inglese counterpressing), il sistema tattico tipico del Borussia che raggiunse la finale di Champions 2013 (poi persa 2-1 col Bayern Monaco). Tecnicamente questa forma di pressing prevede una pressione esercitata in transizione, ovvero in fase immediatamente successiva alla conquista della palla da parte dell’avversario. Ha una duplice utilità. Serve a interrompere un potenziale contropiede avversario e, al tempo stesso, a riproporre una nuova azione offensiva. Lo stesso Jürgen Klopp ha definito il gegenpressing come "il miglior playmaker", in una connotazione che interpreta questo sistema difensivo-offensivo come uno strumento che in qualche modo è parte integrante del comportamento della squadra in campo, quasi come fosse uno dei calciatori della formazione. 

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Il Liverpool tende a esercitare un pressing estremamente asfissiante sul portatore di palla avversario, con frequenti raddoppi di marcatura e fasi di transizioni (curate sia in tensione offensiva che difensiva) molto veloci. Una continua compressione delle distanze esplode per le ripartenze di Firmino, Mané e Salah (ex romanista che fino alla scorsa stagione ha giocato in serie A), con Lallana (in dubbio per la doppia sfida con la Roma) che funge da raccordo rapido nei collegamenti tra la mediana e la linea offensiva. Per la semifinale di Champions Klopp dovrà rinunciare a Emre Can e a Joel Matip.

La Roma del 1984 contava su una linea difensiva molto efficace, grazie alla presenza di marcatori come Righetti e Nela, e un centrocampo completo per qualità, su tutti Falcao e Cerezo, e senso tattico, la numero 10 di Di Bartolomei era il riferimento per ogni fase di gioco. Bruno Conti, invece, fungeva da suggeritore alla vena realizzativa delle due punte. Graziani e Pruzzo formavano una coppia che oggi sarebbe meno utilizzata dagli attuali schemi tattici. Infatti, la Roma di oggi in fase offensiva fa affidamento al lavoro dei due cursori esterni a supporto della punta centrale. Dzeko in questa edizione della Champions League sta riassumendo in un unico calciatore quello che in altri tempi avrebbe fatto la cosiddetta coppia d’attacco. Il 4-3-3 di Eusebio Di Francesco prevede una linea mediana atleticamente forte, con buona propensione anche alla fase offensiva, soprattutto con gli inserimenti e i rimorchi di Nainggolan. Gli esterni offensivi lavorano con i fluidificanti per le sovrapposizioni e i difensori centrali alzano spesso la linea di inizio dell'azione per muovere la palla su rapide verticalizzazioni, sia con tratti brevi di passaggio che con lanci lunghi per la punta centrale.

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In questo periodo sia il Liverpool che la Roma nei rispettivi campionati sono fuori dalla lotta per il titolo (ne sono uscite molto presto) e in disputa per un posto in Champions League. Per gli inglesi il compito non sembra ormai difficile, forti di una classifica che li vede tra il secondo e il terzo posto. Sono i giallorossi, invece, a doversi preoccupare di una bagarre a tre insieme a Lazio e a Inter. Tre candidate per due posti. Il pensiero alla serie A per la Roma non è ancora qualcosa da cui potersi distrarre. Nell’84 questo pensiero fu addirittura lotta per il titolo.

Roma-Liverpool è una ritorsione del tempo, uno scherzo di Crono, un giochetto tirato dalla sorte per rimestare tra i ricordi peggiori, o migliori. A seconda se si voglia ammettere - chiedere soprattutto ai romanisti - che il tempo a volte è in grado di tramutare in qualcosa a cui affezionarsi pure se quel qualcosa lo si è desiderato con un esito diverso. Una forma drammatica della dignità al vissuto. Il futbol ha sempre vissuto anche di questo. La completezza di un pathos che chiede di vivere la sua pienezza pure nell'amarezza. Facile è la vittoria, profonda è la conoscenza della sconfitta.

Dopo l’1-1 dei 120 minuti di gioco, come tutti sanno, a vincere la Coppa dei Campioni ai calci di rigore fu il Liverpool. Quasi tutti i tiri dal dischetto furono calciati dal basso verso l’alto, compresi i due errori fatali alla Roma, che in quella serie si era addirittura inizialmente portata in vantaggio. Conti calciò altissimo e Graziani scheggiò la traversa. Quella traversa sotto cui l’ombra di Grobbelaar ancora danza la sua beffa. A chi il ricordo e l’amarezza, a chi la possibilità di rifarsi. Il calcio a volte ama le più commoventi “rimpatriate”. E certi remake hanno la memoria buona.